Confesso di essermi imbattuto solo per caso, alcuni anni fa, nella figura di Giuseppe Mario Germani. In quel periodo ero alla ricerca di una vicenda o di una prova di amicizia memorabili da riprendere e valorizzare in un breve saggio. Sarebbe stato il mio contributo ad un volume intitolato, appunto, “De Amicitia” e dedicato ad Arturo Colombo, autorevole studioso dell’Università di pavia.
Negli stessi giorni rileggevo il celebre libro di Stefan Zweig, Il mondo di ieri. E dico che lo “rileggevo” perché quell’opera non può essere considerata solo un’autobiografia: per uno storico dell’Ottocento e del Novecento è una fonte preziosa per tracciare il profilo spirituale di quei due secoli. Va dunque tenuto a portata di mano e di tanto in tanto consultato. Questa volta, però, la mia attenzione fu richiamata dalla pagina dedicata da Zweig alla vicenda di Germani e alla straordinaria prova di amicizia di cui il medico polesano fu protagonista.
Ne fui impressionato; e i primi approfondimenti mi convinsero che avevo trovato ben più che la materia per il contributo che avevo in mente. Aprii dunque una linea di ricerca parallela a quelle che avevo in corso (ma – a dire il vero – per me ben più appassionante di quelle). Ne trassi alcuni risultati, che suscitarono qualche interesse in Italia e in Germania. Qui soprattutto ebbe eco il ritrovamento di un’inedita epistola a Mussolini scritta dall’ebreo antinazista Zweig (il lettore ne apprenderà circostanze e testo in questo libro).
Il corso delle ricerche e della mia professione presero però altre direzioni. Mi accontentai così di questi primi risultati. E forse la rinascita di attenzione nei confronti di Germani si sarebbe spenta, se uno studioso quale Gabriele Anto- nioli non si fosse messo al lavoro con scrupolo e dedizione per trarre dal ‘caso Germani’ il libro che ora ho il piacere di presentare.
A questo lavoro di Antonioli credo si applichi per davvero quello che è spesso un complimento abusato: è un libro che “si legge come un romanzo”. Il complimento – quando è ben speso – si tributa a un’opera di saggistica che sia di lettura particolarmente scorrevole e coinvolgente. Ma presuppone sempre che l’opera in questione rispetti i canoni del saggio. Nel caso di un lavoro storiografico, questi canoni sono l’accuratezza e completezza della ricostruzione, lo scrupolo nell’uso delle fonti, una certa coerenza dell’intento interpretativo.
In effetti, Antonioli ha consultato con accuratezza fonti disparate e difficilmente accessibili, le ha ben montate in un racconto coerente e interessante, ha offerto, seppur con discrezione, spunti interpretativi importanti. L’aver scritto un libro che “si legge come un romanzo” è dunque suo pieno merito.
E tuttavia il merito di avere trasformato un saggio storiografico in romanzo l’autore deve in questo caso condividerlo con il protagonista: un uomo la cui vita offre un canovaccio ricco e stimolante, intrigante – come usa dire; e perciò suscettibile di narrazione. Giuseppe Mario Germani è un uomo la cui esistenza interpella la ragione e anche i sentimenti, presenta colpi di scena e interrogativi, intesse momenti di grandezza e momenti di semplicità, affiora nel quadro della “grande storia” del tempo in cui si svolse e al tempo stesso vi si confonde.
E forse proprio il suo incerto, paradossale, controverso e tormentato rapporto con la “grande storia” è l’aspetto più romanzesco della vita di Germani. Egli è un uomo di cui vediamo in piena luce la forza, il coraggio, la coerenza, la robustezza spirituale. Ma, al tempo stesso, lo vediamo misurato con eventi e persone che agiscono su un palcoscenico cui egli non appartiene – non appartiene fino in fondo.
Germani s’incontra e corrisponde con alcune tra le personalità più in vista del fuoriuscitismo antifascista. Il grande Zweig, una delle personalità artistiche più acclamate tra gli intellettuali degli anni ’30 in Europa, prende la penna per difenderlo. Una mobilitazione d’opinione transoceanica lo rende oggetto di una campagna poderosa. Il filosofo più importante del XX secolo italiano, Benedetto Croce, gli è paternamente vicino.
Eppure, a pochi decenni di distanza, il nome di Germani rimane quasi sconosciuto, spesso negletto anche quando si parla e scrive di circostanze che lo hanno interessato. E uno studioso del XIX e XX secolo, sia pur modesto come il sottoscritto, non deve vergognarsi di riconoscere (come ho fatto all’inizio di queste pagine) di avere incontrato quel nome “solo per caso”.
Leggendo questo libro, si vedrà come proprio questo sia il rovello intollerabile che tormenta la parte finale della vita di Germani. Egli non si capacita dei silenzi con cui le sue lettere si incontrano, dell’assenza del proprio nome dalla ricostruzioni e dai riconoscimenti, della scarsa spendibilità dei crediti che (senza alcun calcolo, s’intende) si era meritati. E’ penoso e imbarazzante – proprio così è stato, per me, nella lettura delle pagine finali di questo volume – il contrasto tra l’orgogliosa, a tratti pertinace, rivendicazione da parte dell’ “amico di Matteotti” di quanto egli ha fatto e il “fin de non recevoir” che le oppongono i protagonisti storici (ossia passati alla storia, per averla fatta, e poi anche per averla scritta).
Sta qui, in effetti, il romanzo: una vita, avventurosa, generosa, tumultuosa, sofferente, tutta prossima e intrecciata ai grandi eventi e che tuttavia non si fa “storia”, non lo diviene – non, almeno, in senso ufficiale.
Che risposta dare al rovello di Giuseppe Mario Germani, all’interrogativo (che anche chi leggerà questo libro non potrà non porsi) a proposito del silenzio calato sul nome del medico amico di Matteotti? Ve ne è una sola, io credo, che sia essenziale e conclusiva.
Il secolo XX ha prodotto esso stesso la chiave della sua lettura. E’ una chiave forgiata dall’ideologia politica. E’ difficile accomodarvi figure che resistano alla reductio necessaria ad essere inquadrate nella griglia ideologica con cui si legge quel secolo. Germani fu una di queste figure. Socialista, ma patriota; in forte contrasto con i comunisti, ma certamente anti-fascista; si lascia definire liberale, ma non cela la sua profonda fede religiosa; in contatto con i resistenti, ma – evidentemente – anche con personalità del regime fascista come il senatore Emilio Bodrero.
Antonioli riporta il giudizio raggelante che Ernesto Rossi finì per dare di Germani (che, da parte sua, a lungo aveva considerato Rossi suo amico). Il medico polesano sarebbe stato “uno squilibrato con manie mistiche”. Lasciamo l’asprezza di questo giudizio alle circostanze contingenti che probabilmente lo determinarono e cogliamone invece la difficoltà di Rossi ad accogliere la figura di Germani dentro una sua grammatica e un suo savoir faire politici. Una difficoltà che, come fu sua (di persona che di Germani era stata amica), fu probabilmente anche di altri. Fu ed è della Storia del XX secolo.
Germani ha una statura umana e spirituale che non si è saputa ritagliare – mi si lasci usare questo paradosso – a misura di storiografia. Ha seguito una sua propria coscienza e coerenza, un suo proprio ardimento (anche fisico), un suo proprio orgoglio che verrebbe da dire testardo, una sua fede che sarà stata pur mistica, ma lo sorresse dove non pochi sarebbero caduti.
Tutto ciò non bastò a farne un vincitore. Ed è per questo che il ruolo di Antonioli e di questo libro sono importanti.
Si riprenda ora l’ultima parte della lettera che Zweig scrisse a Mussolini, ringraziandolo per il provvedimento di clemenza a favore del medico di Cene- selli. Lo scrittore austriaco la conclude con queste parole: “i vincitori della vita, scrivono da soli le loro gesta nel libro della storia, e io credo che i poeti debbano pertanto, per ragioni di giustizia distributiva, mettersi a fianco dei deboli e dei vinti”.
Certo Germani non fu un debole, né potremmo definirlo un vinto. Ma altrettanto certamente non gli riuscì di scrivere da solo le proprie gesta nel libro della storia. In una lettera redatta alla vigilia di Pasqua di poco più di mezzo secolo fa, indirizzata proprio a Ernesto Rossi, scriveva: “Andrò alla Messa a San Giusto: visto che nessuno si ricorda di me pregherò il buon dio che assista i miei cari e mi dia forza e animo «per non mollare»”.
Ecco. Credo che Antonioli, col suo lavoro, abbia svolto l’opera che Zweig assegnava ai poeti: sottrarre all’oblio chi all’oblio sembra ingiustamente condannato. E facendolo, questo libro ha anche fraternamente risposto alla richiesta di ricordo e testimonianza affidata a quella lettera vergata nella vigilia di Pasqua di poco più di cinquanta anni fa.
Fabio Rugge
professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche
Rettore dell’Università degli Studi di Pavia
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In copertina:
Foto segnaletica di Giuseppe Mario Germani