L’anniversario è di Matteotti, e Matteotti – come è giusto – campeggia da un capo all’altro del volume, però protagonista è collettivamente la Terra di Matteotti e fa bene il titolo a evidenziarlo. Funziona bene anche il sottotitolo, promettendo quello che viene poi pienamente mantenuto: una storia sociale del Polesine tra le due guerre mondiali. Storia sociale è di più, copre più terreni e spazi differenziati della storia politica, per non dire della storia in genere. Con questo pregio aggiuntivo, che va subito riconosciuto a Valentino Zaghi: che buttarsi alla storia sociale non ha qui voluto dire fuggire dalla storia politica, come spesso invece è avvenuto e avviene, nella stagione dei tramonti – o sentiti come tali – delle ideologie e delle grandi narrazioni.
Il nostro autore è un ricercatore d’archivio – un devoto erudito del proletariato polesano – e il venir meno dei movimenti e dei partiti avrebbe anche potuto indirizzarlo verso una vetero-testamentaria filologia di parte, se non operaia, bracciantile. Ma non è andata così. Non c’è chiusura nel minuto. Il brulichio di accertamenti particolari nei vari paesi dell’area polesana propone, certo, un repertorio di dati conquistati e messi a disposizione uno per uno e che possono giovare a fare cronistoria di una miriade di località e situazioni specifiche; però i dati particolari vengono sempre letti e ricondotti in impalcature più vaste, che sottintendono e inverano interrogativi che vanno oltre la localizzazione territoriale.
La maturità dei tempi, per dare alle stampe ancora una volta grazie all’Associazione Minelliana questa raccolta di saggi nati nel corso di quasi tre decenni di lunga fedeltà ai propri temi – posso ricordare io stesso Zaghi mentre già faceva i suoi scavi e prelievi ai tempi del dottorato di ricerca all’Università di Torino – si manifesta anche nella saldezza della struttura e nelle chiare suggestioni dell’indice: è un vero libro, non una qualunque antologia.
Si parte da una aggiornata rassegna bibliografica a carattere introduttivo: come si è via via guardato lungo i novant’anni dalla morte – quella morte – e come si guarda a Giacomo Matteotti. Problemi di periodizzazione, di aggiustamenti dello sguardo – e naturalmente, non solo degli storici -, di ricontestualizzazione assidua.
Anche il primo saggio -uscito nel 1990 sulla rimpianta “Rivista di storia contemporanea” di Guido Quazza, piena di ‘torinesi’ di nascita e ad honorem -copre un’arcata temporale non estesa, ma densa, chiamando in causa la soggettività dei proletari consegnata all’icastica della frase fatta, intrinsecamente contestataria, ‘Con Matteotti si mangiava ’. Il titolo prosegue facendo riferimento ai Simboli e valori nella nascita di un mito popolare. Apertura di interesse da sottolineare – i simboli, i miti vengono chiamati a interreagire e coesistere con le statistiche economiche e le dinamiche salariali.
Si entra così nella prima parte del dittico: Il fascismo, cui si affianca, come parte seconda, L’antifascismo. Partizione logica, ma senza poi alcuna separazione dualista, poiché gli intrecci e gli ibridi sono invece la cifra dei singoli approcci in questo spaccato di società segnata da inabissamenti e riaffioramenti, trasformazioni e palingenesi di singoli, sigle, luoghi, funzioni. Interessa all’autore constatare che la politica – e l’opposizione – si fanno anche senza che vi siano più i partiti, per spontanea autorigenerazione dalle viscere della società. La miseria è tanta, i problemi di sussistenza, la mancanza di lavoro in certi anni e stagioni così devastanti che i bisogni urgono e si fanno sentire ad onta del controllo politico e della repressione istituzionale. Possono tentare anche qualche uso delle istituzioni di contenimento del lavoro, far riemergere pratiche di lotta, accennare a ricuperi di esperienze e di funzioni. È lo sfondo, la miseria e disperazione delle campagne povere. Il mito di Matteotti – l’uomo ricco e buono, il borghese che si era messo dalla ‘nostra parte’ e per questo è stato ammazzato – cresce su questo sfondo. Contro il quale si erge – “Di crisi in crisi” – Il Partito nazionale fascista in Polesine: un saggio sulle lotte per il potere e sulle ‘beghe’ – tipiche -, e nello stesso tempo la verifica che anche sul versante fascista, non solo su quello antifascista, quest’area di povertà e di sottosviluppo economico non coincide però con un’area di inconsistenza e irrappresentatività politiche. La terra di Matteotti – e degli anti-Matteotti in camicia nera: Finzi, Casalini, Marinelli, Bellinetti – è una periferia che non è affatto periferia, agli effetti della materialità e della pregnanza simbolica dello scontro che vi si consuma.
Oltre al ricupero di una esperienza intellettuale, una rivista dal titolo curioso – “L’Abbazia degli Illusi” – questa Parte I arriva precocemente (non sono in genere studi pensati oggi, gli inediti sono tre) ad approcci, angolature e metodi innovativi: rende infatti protagonista, come fonte, le lettere, quelle dei semianalfabeti compresi. Soggettività che si aprono faticosamente alla comunicazione e alla storia, privato che si intride di pubblico. È un terreno di indagine – la cultura e le soggettività dei subalterni – conquistato e esplorato solo a fine secolo e Zaghi è stato fra i primi a raccogliere le suggestioni delle ‘lettere ai potenti‘ ( “Al suo magnanimo quore” I Polesani scrivono al Duce) e a spostare l’attenzione dalla prima alla seconda guerra (La censura postale a Rovigo durante la seconda guerra mondiale; Lettere di polesani prigionieri degli Alleati). Naturalmente questo può significare dismettere presupposti di separatezza, gli ultimi cascami del fascismo come mera ‘parentesi’ senza possibilità di penetrazione oltre la superficie.
Ammettere contaminazioni della cultura popolare e processi di ibridazione – del resto originari nello stesso movimentismo fascista e nella composizione del suo personale sindacale e politico, che non è tutto fatto di agrari e di possidenti – non toglie che il nostro autore continui a lavorare, approfondire, valorizzare con immedesimazione profonda i luoghi e le forme della dissociazione e dell’antagonismo.
La Parte Il si dedica a questo, con sei saggi, di varia estensione e datazione, molto coerenti fra loro e che disegnano una mappa mai del tutto interrotta, fra le due guerre, di Culture e identità antagonistiche.
Coi dati e i toni crudi del lavoro di scavo su Aborto e infanticidio negli anni Trenta: i ‘Fabbricatori di Angeli‘ non sono, essi stessi, angeli.
Questo, come altri articoli-capitoli, nasce su “Terra d’Este”, e accanto alla rivista animata da Francesco Selmin fa la sua comparsa come prima congeniale sede delle trame di ricerca di Zaghi Formai a questo punto trentenne “Venetica”.
Il lavoro prosegue con l’importante scandaglio sui numeri, il linguaggio, i comportamenti dei folti gruppi di espulsi ed emigrati politici: il ricordo delle violenze subite, la speranza e aspra promessa dei fuorusciti di volersi e potersi prima o poi vendicare, facendo almeno bere l’olio di ricino all’ ex-squadrista persecutori di braccianti.
Di nuovo, anche qui, fertili incursioni negli archivi, ritrovamenti rivelatori di rabbie e rancori e impulsi di rivalsa tenuti vivi per decenni e che animeranno le fasi più cruente della lotta partigiana, prima e dopo il 25 aprile.
Una conflittualità malamente compressa e repressa, risentimenti sociali antichi, sacche esplosive di autolegittimazione alla violenza di classe.
Uno degli studi inediti, proposti qui per la prima volta – Le lettere dal carcere di Guido Melega – confermano la potenza euristica della fonte privilegiata, attraverso le lettere alla moglie, fra il 1928 e il 1934, di un militante di base di Boara, classe 1892, passato dai socialisti ai comunisti, vigile urbano a Milano, poi fruttivendolo, protagonista di una piccola-grande vita fedele a se stessa.
Non è male che un libro legato a un grande nome possa dimostrare la capacità di irradiazione dei valori della lotta anche andando a ricuperare i pensieri e i sentimenti di uno dei non pochi Guido Melega: un anonimo cui restituire il nome.
Mario Isnenghi
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In copertina:
Busto di Giacomo Matteotti (particolare) dello scultore fiorentino Giuseppe Guastalla (1867-1952) eseguito nel 1924 e collocato a Roma presso la Camera dei Deputati nel secondo dopoguerra.