Giuseppe
Leone
non pensa mai all'album. Mira piuttosto al libro. Concepisce le
fotografie come sequenze narrative; come momenti di un racconto.
Secondo un modo di narrare, che è una convergenza di accordi: un
collegamento plausibile tra le cose. E la plausibilità è tutta nella
scoperta artificiosa dei collegamenti, nell'atto mentale che sta
dietro ogni singolo scatto. Leone si è nutrito di barocco siciliano.
La lente della sua macchina fotografica è un "istraforo di
prospettiva", dentro il quale "freneticano angoli, spezzature e
distorcimento di linee", e si scompongono "basi, capitelli e
colonne, con frottole di stucchi, tritumi e sproporzione".
"Frottole " sono gli sganasci di bocca, le maschere grottesche, i
grotteschi ritratti a busto, le impudicizie di seni e fianchi che,
in livida pietra, danno sostegno ai balconi barocchi. Come
"frottole" sono i putti acrobatici, siano essi in gesso o in marmo.
È tutto un "fogliame", un ornamento, un giocolare, un insatirirsi
della pietra: un insolentire o un ammiccare allucinativo. Uno
strepitante bestiario, un gineceo spudorato, una galleria di facce
caricate, un manuale di gesti e di giochi, una bottega di occhialaio
pazzo, si inscenano nelle penombre, negli angoli, nelle sporgenze
barocche. Sembrerebbero appartenere da sempre, e per sempre, alla
pietra, e solo a essa. Se l'arguzia sbrigliata di Leone non
scollasse dal vortichìo delle facciate, dalle colatine, dagli
altari, quel torpido, strampalato, giocoso, digrignante e allusivo
"teatro". Non lo staccasse e non lo calasse tra le strade e le
piazze. Là dove le metafore tornano a vivere, a camminare e a
respirare - come in un cunto di Basile - prendendo anima e corpo. Il
teatro dell'architettura e il teatro della vita sono il gran teatro
dell'arte di Leone. |