È una Rovigo d’antan quella che toma a trovare la strada della nostra memoria. Memoria in gran parte perduta, naturalmente, come succede a chi privilegia il ricordo allo scorrere del tempo reale. E tuttavia un dettaglio, una immagine, un nome, una fotografia, finiscono per tirarsi dietro quello che era finito nella polvere dei cassetti di una vecchia scrivania. È vero che è ormai invalsa l’abitudine di ritrovare la città dell’infanzia, ma quella che ci raccontavano i genitori e i nonni, in una sorta di felice paradiso, che poi risponde a un immaginario nato dai racconti di Gino Piva e Nando Palmieri e rispolverato dalle generazioni successive una volta arrivate alle soglie della tarda maturità. Vale, allora, la pena di lasciarsi trasportare, di confrontare le pallide immagini della memoria con quelle rimaste nelle vecchie cartoline e nelle fotografie e ritrovare ancora una volta la città attraverso gli occhi e le parole di altri.
Si comincia con un pittore, Pio Pullini (Ancona, 1887 – Roma, 1955), che aveva trascorso a Rovigo otto anni, dal 1923 al 1931, come insegnante di disegno nell’istituto tecnico “Edmondo De Amicis”. Pullini si era stabilito con la moglie e i tre figli in piazza XX settembre, stringendo amicizia e rapporti cordiali con gli esponenti della borghesia locale, continuando tuttavia a mantenere i rapporti con la capitale, partecipando a mostre collettive con caricature e acquerelli umoristici.
Si continua con quattro articoli di grande interesse e straordinaria finezza espressiva, in cui il ricorso ad espressioni dialettali è singolarmente armonioso, perché l’intento è affettivo.
Meglio che altrove, Gino Piva riesce a restituirci l’immagine di una città che non c’è più (e che forse non c’è mai stata), ricca di personaggi curiosi e talora emblematici, chiusa nelle sue strade e nelle sue piazze avvolte dalla nebbia autunnale.
Le poche fotografie che ci sono pervenute ci mostrano prospettive che sul fondo lasciano intravedere gruppuscoli di ragazzini e sfaccendati che agitano la mano in segno di saluto; i quadri di Giovanni Biasin, così come i disegni di Eugenio Piva (zio del nostro) ci testimoniano, tranne in rari casi, paesaggi urbani semideserti e sovente malridotti, come se la città non avesse vita e la gente se ne fosse andata altrove. Né ci aiutano molto di più i documenti e le carte di archivio, che raccontano nomi che si infilano uno nell’altro senza neppure una fisionomia. La Rovigo a cavallo tra Ottocento e Novecento, che ancora rabbrividisce di un passato risorgimentale, la vita la ritrova nelle pagine di Gino Piva, protagonista (più che testimone) dell’ultimo scorcio del XVIII. Nessuno più, dopo queste pagine di Gino Piva, anch’esse per tanti anni dimenticate, riuscirà a raccontarci la città in modo tanto incantevole, anche perché talora si tratta di una Rovigo visitata dagli occhi di un bambino.
Nel primo dei quattro articoli, infatti, c’è quasi la ricostruzione di un paese dei balocchi e un itinerario di delizie gastronomiche. Luoghi e nomi scomparsi o sfioriti, che ritornano a vivere e pare di intravedere la gente nelle botteghe e nelle strade.
Nel secondo e nel terzo articolo (che innescarono una garbata polemica di cui diamo conto nelle note), affollati di caricature affettuose e di tutta una umanità umile e dimessa, eppure quasi sempre dignitosa, lo scrittore si abbandona all’estro e al gusto dello schizzo, indulgendo al pittoresco e a modi che saranno ripresi anche da E.F. Palmieri nelle poesie «masnadiere». C’è quasi la memoria del «Romanzo dei Comici» di Scarron e nel disegno delle figurine, più che Daumier, ritroviamo il segno raffinato da Jacques Callot e delle sue illustrazioni della Commedia dell’arte, perché, in fondo, Gino Piva mette in piedi un suo divertito teatrino, che da ultimo sa anche strappare, oltre alle risate, qualche lacrima di commozione. L’ultimo articolo racconta ed elogia la vecchia banda rodigina, di tradizioni illustri e sempre più dimenticata. Gli articoli risalgono tutti agli anni di guerra e in tre casi su quattro addirittura a quei mesi del 1943 in cui la situazione cominciò ad incrudelire e farsi ogni giorno più critica.
Impossibile non condividere l’acuta nostalgia che percorre le pagine, forse le ultime che ha scritto, di Michelangelo Bellinetti, Mike per gli amici. Un tuffo in una città perduta nel tempo, ma anche in quella sua provinciale umanità, con tanti personaggi ormai sbiaditi e che, pure, hanno talora lasciato un segno ancora leggibile. E nostalgia per i giorni di scuola e le festine, il passeggio di piazza, il gran daffare di associazioni e circoli culturali purtroppo effimeri, ma che forse una labile traccia hanno lasciato. Impossibile non risentire la voce di Mike, quando tornavamo da scuola, gonfiarsi in una sarcastica enfasi, mentre snocciolava nomi e storie che gremivano la sua fantasia di ragazzo cresciuto in fretta.
A ritrovare e rileggere, adesso che lui non c’è più, queste pagine così piene della sua giovinezza e della sua fantasia eccitata, si prova una stretta al cuore, ma si riesce anche a ricostruire vent’anni di storia di Rovigo, dalla Liberazione ai primi anni Sessanta, quando Mike, come tanti altri, se n’era andato a sua volta, prima a Milano alla Notte di Nino Nutrizio sovente al seguito di Nando Palmieri, per poi passare al Gazzettino di Venezia diretto, allora, da Lauro Bergamo e ancora al Corriere della Sera e alla fulminea esperienza dell’Occhio di Costanzo e finalmente all’Arena di Verona, dove sarebbe rimasto, sempre un po’ inquieto, fino alla fine della carriera. Una storia, quella di Mike, che si ritrova, pari pari, in queste pagine che girano il tempo a ritroso, con tanti volti perduti e immagini della giovinezza che si affacciano per un attimo tra le parole, per poi tornare nelle ombre della memoria. Nostalgia, ma anche rimpianto per non avere potuto spartire, ancora una volta, con Mike quei ricordi e quegli squarci di vita, con la città della nostra adolescenza che si srotolava come un tappeto magico.
Sergio Garbato